Qui di seguito il ventunesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto
IL GIORNO DELLA SALVEZZA
che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima Edizioni. Spero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.
SE LA COSCIENZA E’ TOTALE, COME NON FARNE PARTE?
Una metafora utile per cogliere ulteriori approfondimenti sull’essere umano e la sua esperienza in questo universo è quella della gravidanza. L’uomo è immerso in un oceano che è ogni cosa, come il bambino è nel grembo materno. Ma questa totalità, solo incidentalmente può venire descritta come la quantità globale di cose che ci sono nell’universo. Perché esse sono solo le molteplici forme che l’unica sostanza prende di volta in volta. La quale, abbiamo colto, è quello che ci siamo abituati a chiamare Dio, ma che non è Dio inteso come una figura esterna. Infatti, il feto e il corpo che lo contiene sono inestricabili e senza possibilità e capacità di mostrare una separazione e una distanza fra di essi. Dio è inteso semmai, in modo meno ambiguo, come coscienza: l’aspetto finale che la materia prenderà è solo un dettaglio. La stessa madre, nella gravidanza, è una coscienza che ospita in sé un’altra coscienza; riconoscibile malgrado la palese interconnessione.
Così, per la sua esperienza, il bambino sarà sia a livello di coscienza che a livello organico un unico corpo con la madre. La quale pure non può dichiarare dov’è posto il confine di separazione dal figlio. Il bambino, allora, per quel che può sperimentare e captare, vive non solo il suo corpo ma tutto quello in cui è inserito come parte di sé. È sé: lì è sorto, si è sviluppato e ha cominciato a fare esperienza così che non può avere coscienza di altro.
Il bambino non ha alcuna consapevolezza che esista un’altra coscienza, distinta dalla sua, proprio per via di quella concatenazione. Tutto è se stesso e così, senza incontrare nulla di differente, non ha neppure gli strumenti per accorgersi di sé. È in realtà inconsapevole pure di sé: è soltanto fusione, una coscienza che viene alimentata ma immersa nell’ignoranza.
L’unica possibilità per cui egli possa accorgersi di sé e quindi della matrice che lo ha creato e fatto progredire è ovviamente separandosene. E così diventare cosciente di sé e dell’assoluto che l’avvolge. È, infatti, quanto avviene al momento del parto: nel separarsi, il bambino si rende conto del proprio corpo, scisso dalla madre. Passaggio nevralgico in tutta questa dinamica: il bambino vede la madre. Ovvero, è come se prendesse coscienza di entrambi.
Malgrado la metafora, non dobbiamo perdere di vista che, in realtà, l’essere umano vive la vita separato dalla sua matrice solo al fine di scoprire la verità. La quale, appunto, ha a che fare con un diventare consapevoli di questa coscienza assoluta dalla quale egli è sorto. Ma la sua natura non è quella di entità separata da essa, la separazione è solo l’espediente inscenato per permettere questa scoperta. L’intera realtà percepibile è quindi da considerare come un perfetto scenario inventato appositamente perché noi potessimo diventare coscienti di Dio.
Nuovamente si ribadisce che la mente razionale è il dono grazie al quale l’essere umano arriva a cogliere che il vero sta dietro a questa prima facciata. E non per considerare reale esclusivamente quanto è possibile cogliere con i ragionamenti e le prove tangibili.
Ecco che in questa prassi, le persone possono rendersi conto che allora vivono nei panni di persone per un momento, una vita sola. Per il tempo necessario a vedere la verità, che è appunto quello che è dietro a quanto convenzionalmente si registra come reale.
E quando ci si accorge di ciò, si giudica l’esperibile con lo stesso distacco con cui si giudicherebbe quello che si guarda in una pellicola cinematografica. Avviene spontaneamente, come conseguenza perché si sbilancia l’importanza che si dà alle cose. Come potersi lasciare condizionare, se non superficialmente, da sofferenze, desideri, gioie quando vengono colti come una sorta di parvenza, come la proiezione di un film? Come se fossero un involucro da rompere o un mero percorso da oltrepassare per raggiungere la vera vita.
La vera realtà, allora, è quella vissuta attraverso la personale soggettività: la coscienza. Tutto ciò che viene fornito e vissuto attraverso una elaborazione, un filtro esterno a noi è solo una specie di rimaneggiamento, di artificio. Questa realtà posticcia, esterna, è, infatti, una proiezione di quanto l’individuo ha dentro di sé (che viene poi proiettato al di fuori). Questa capacità di creare la realtà è la chiave di lettura per illuminare la libertà. Abbiamo già visto, difatti, che questa capacità ci mostra sia la nostra vera natura divina, che quella fallace della realtà fisica.
La realtà materica, che a questo punto potremo definire oggettiva, quando rivela la sua caratteristica illusoria, viene valutata come una oppressione, al pari di una prigione dalla quale cercare di uscirne a tutti i costi. E questa fuga pare che debba avvenire a seguito di un percorso di crescita spirituale. In realtà, nessuna via spirituale può facilitare tale liberazione perché la spiritualità non serve per scaricarsi di dosso la materialità. Anzi, quando vissuta a tale scopo, non farà altro che indurre a concentrarsi sulla mondanità e le implicazioni della vita terrena. La spiritualità, nella pratica, deve essere utile a far captare la vera natura della realtà. Se stiamo cogliendo che la realtà è soltanto un artificio illusorio, come potrei fare a liberarmene? Non me ne posso in verità liberare perché non c’è nulla da cui liberarsi, essendo un’illusione. E finché mi concentro sul fatto che me ne devo liberare, ne rimarrò sempre invischiato perché la credo vera. Se abbiamo affermato che è come la visione di un film, avrebbe senso allora volersi liberare dalle avversità che stanno vivendo i personaggi del film? No, perché tu sei solo lo spettatore; solo se si ha uno squilibrio nella valutazione della realtà si può arrivare a immedesimarsi così tanto nei personaggi di un film.
E allo stesso modo, è in questa interpretazione che deve essere letto il significato di “risvegliarsi” da questa realtà. E non perché questa vita è una parentesi deviante come un sogno. Non c’è nulla da cui svegliarsi, perché stai facendo un’esperienza virtuale. Piuttosto, bisognerebbe rendersi conto che si è già svegli.
Il riprendersi da questo giogo, infatti, non avviene a seguito di un particolare lavoro o sforzo, ma come conseguenza spontanea dell’accorgersi che la vera natura a cui apparteniamo sta dietro a quanto superficialmente si percepisce. Quando avviene ciò, viene anche spontaneo sentirsi attratti dall’assoluto perché è la nostra vera natura. Non si può evitare di sfuggire da tale attrazione perché è un ritornare a casa; nell’esempio di questo capitolo: ritornare al grembo materno.
Infatti, non appena si diventa coscienti di Dio, si torna a riunirsi a Lui. E da questo momento in avanti, non sarà un essere uniti come “prima”, cioè nella totale ignoranza di tutto (come il feto nel grembo). Ma il contrario: sapendo di sé, di Lui e di questa realtà illusoria. La vita, d’ora in avanti, sarà non subendo le influenze di quanto sentiamo pungolare dall’esterno, come desideri, sofferenze, sentimenti. Essi verrano comunque vissuti, ma in modo libero, puro, scevro dal bisogno di supporti esterni per ottenerne lo sviluppo e la risoluzione. E per un mero partecipare alla coscienza universale, all’unica vita.
Questa realtà, bisogna sottolineare che per il suo essere giudicata illusoria, limitante, detentiva può venir vissuta in modo negativo. Come un obbligatorio passaggio, un castigo o una prigione da scontare. Sarà così solo se personalmente si deciderà di leggerla in tale modo. Essa, in verità, è un dono che il Padre ha creato apposta perché noi potessimo provare come stanno effettivamente le cose e unirci a Lui in modo totale e consapevole. Nella Sua infinita benevolenza, Egli non ha permesso che restassimo nell’ignoranza e potessimo così concorrere a Lui, alla Sua vita. Forse ci sono esperienze spirituali che non hanno strettamente necessità di sperimentare questa realtà, noi sì. E per poterci innalzare a un simile livello, Dio ha approntato la realtà materiale. Che è appunto un prodotto della Sua energia e fa conseguire esperienze perfettamente opposte a quelle della nostra vera natura, proprio per poterci rendere conto di quest’ultima.
Ci viene data l’esperienza di questa vita proprio per accorgerci della vera vita. Che non è quella in questo mondo, ma il mondo permette di rendercene conto. Non ci sono limiti nella realtà, come possiamo vedere, e quindi si vive in questo mondo finché non realizziamo Dio. Si potrebbe aver bisogno di così tante esperienze che uno spirito dovrà passare più e più esistenze. Come sappiamo, siamo sempre la stessa unica vita, indipendentemente da quante persone diverse siamo e quanti corpi fisici muoiono e rinascono. Può essere che non se ne può avere una prova certa, ma è plausibile che la nostra soggettività (la personale coscienza che uno è) passi per più vite terrene prima di poter coronare la comprensione della verità. Sappiamo che alcune religioni lo considerano possibile e altre no, a dire il vero non è importante, come già affermato. Perché si tratta sempre di questa realtà e non della vera realtà. Noi non siamo il corpo che utilizziamo, l’esperienza terrena è costituita esclusivamente da dettagli posticci atti a portarci alla Verità. A riportarci alla matrice, alla coscienza universale, al Padre (o meglio alla Madre, visto l’esempio di questo capitolo).
A questo punto, si potrebbe criticare che il contenuto di questo capitolo tenda a esporre maggiormente pensieri orientali piuttosto che dal Vangelo. Tuttavia, bisogna ricordare che Gesù è stato un “messia” prima che un “cristo”. Ovvero, Egli era un orientale, non un occidentale e si commette appunto un errore di interpretazione se ci si ostina a volerLo collocare in un contesto soltanto europeo. Egli, infatti, proviene invece dall’Oriente e, quindi, non deve assolutamente sorprendere se dalle sue parole possiamo imparare quanto ha origine dalle filosofie orientali. Egli le trasmette senza segnalarle perché è da esse che è generata la Sua cultura, le Sue tradizioni, la Sua scuola. Il popolo dove Lui è cresciuto e si è formato non è vissuto in modo isolato finché il Vangelo è giunto sull’altra sponda del Mediterraneo: è sempre esistito, ed è asiatico e africano.
Addirittura, c’è chi sostiene che Gesù abbia fatto dei viaggi in gioventù per formarsi spiritualmente in Oriente, fino in India. Ma non è fondamentale cercarne le prove perché di sicuro Egli ha dentro di Sé i concetti di quelle filosofie anche se non le avesse mai conosciute direttamente. Perché Gli sono giunte in modo trasversale per il fatto che la Sua cultura è conseguenza dell’influenza di popoli come quello babilonese che è progredito assieme a scambi culturali con l’antica India. Proprio come si potrebbero estrapolare principi filosofici occidentali dai miei testi, seppure io non ne ho mai studiati e non ho mai peregrinato nei centri europei più importanti dove tali pensieri si sono sviluppati. È nel DNA della mia cultura, del mio modo di pensare a prescindere dal mio esserne consapevole. Così, allora, che Gesù venga considerato piuttosto come un ideale punto di incontro tra filosofie orientali e occidentali.
Se si vede la collocazione del Medio Oriente, dove sono ambientati i Vangeli, allora possiamo idealmente vedere la parola di Gesù come un perfetto centro e filtro che possa “traslitterare” in modo comprensibile per gli occidentali le filosofie orientali e viceversa.
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