Resoconto delle
mostre visitate dal 1979 fino all'ultima, la mostra finale degli atelier della
Bevilacqua La Masa dove sono esposti i lavori conclusivi l'esperienza di un
anno degli artisti ospitati nel 2013, un anno successivo a me e a Dirtmor. In
quella mostra ci sono molte cose interessanti, molte cose molto interessanti;
di certo, ci sono molte cose.
Sono dell'idea che
sia diffuso che gli artisti si sentano spinti a proporre una documentazione di
quanto hanno fatto per un dato periodo nei propri atelier. Forse non viene
neanche richiesto dal curatore, ma gli artisti hanno l'abitudine di considerare
spesso una mostra come il momento per mettere in scena tutto quello che hanno
fatto e\o quello che hanno fatto nel proprio atelier. A volte, secondo me, non è
la strada giusta. L'atelier è un posto per esprimersi liberamente e
sperimentare tutto quello che viene in mente, se ne senta il bisogno per la
propria ricerca o faccia divertire. Deve essere proprio un campo aperto, per
sbizzarrirsi senza alcuna interferenza. Però, la galleria d'arte è altro: deve
ospitare solo la sintesi di tutto il percorso, non l'intero viaggio. Potrebbe
anche essere un solo oggetto, oppure anche più oggetti di quanti infine vengono
messi in mostra. Anche alla mostra di due giorni fa alcune sale erano
traboccanti di roba, manufatti che avevano la funzione di documentare.
La documentazione, a
mio avviso, deve restare nell'atelier, in galleria non bisogna proporre il
riassunto altrimenti si sta facendo cronaca; bisogna proporre una sintesi.
(Discorsi a grandi linee: ovviamente ci sono artisti che basano la loro ricerca
intera proprio sulla documentazione.) E' indubbio che gli artisti si saranno
divertiti a improvvisare e giocare con la loro creatività, però la mostra a
volte appare come specificatamente una documentazione e non il\un risultato di
una esperienza. Il quale potrebbe essere un solo oggetto, che magari non fa
neanche ricordare le esperienze attraversate nello studio ma che ha valenza
perché ne è il prodotto in un modo o in un altro.
Ripeto, è come se
venisse esposto l'intero viaggio e non una meta raggiunta. Ed è una condizione,
quella da me notata, presente anche in altri artisti (non solo di quella
specifica collettiva): trasferire lo studio nella galleria. Si trova qualcosa
su cui mettere a fuoco e lo si mette al centro della proprio creatività, in
diverse forme e tecniche, e poi si trasporta il tutto in galleria. Ma se una
persona vuole vedere lo studio, viene nello studio: la galleria ha un altro
scopo. La galleria (secondo me, ripeto) deve mostrare quello di cui l'artista
si sente sicuro, verso cui non ha dubbi; che sia esaustivo, insomma: un lavoro
che possa stare da solo, indipendente anche dall'intero percorso o
dall'intenzione di partenza. Uno può partire cercando delle cose che poi nel
lavoro presentato al termine manco si potrebbero palesare, ma saranno state
utili per giungere a quella fine (definitiva o temporanea). In conclusione: tra
lo studio e la galleria ci deve essere uno scalino da compiere, difficile e che
mette in crisi ma che dà forza. Altrimenti facendo documentazione si corre il
rischio di proporre qualcosa di riconoscibile: si compie un certo tipo di
viaggio e lo si mette in scena, quasi in modo diretto o semi-indiretto oppure
dei souvenir: un catalogo. Ecco, questo è un termine che potrebbe essere giusto
e a me personalmente non piace. Anzi, riconosco che i lavori in una mostra, che
mi hanno indotto questa riflessione, sono anche accattivanti, però
personalmente ricerco altro. Non m'interessa la documentazione: l'artista deve
sorprendere. Oppure, semplicemente, non riesco a percepire il lavoro quando c'è
una grossa concentrazione di oggetti. Infatti, devo di solito tornare una
seconda volta, con calma.
Un mio problema, tra
l'altro, è che non riesco a soffermarmi troppo a leggere le opere, specie
quando c'è tanta gente, e a leggere le spiegazioni. Questo dipende anche dal
fatto che ci si aspetta dall'artista che proponga un lavoro con un concetto
dietro, il quale dev'essere espresso con una spiegazione dettagliata. Un
pistolotto. Non sempre, non a tutti, ma spesso lo si richiede, ad un artista.
Per questo, l'esperienza a Zurigo mi è stata illuminante. Ho avuto
l'impressione che là gli artisti si preoccupino innanzitutto di seguire la
loro ricerca prima di essere compresi e i lavori proposti sono comunque approfonditi
e curati. Mi è sembrato che gli artisti si interessassero a trovare il modo per
realizzare qualcosa di nuovo (non sempre riuscendoci) al fine di stupire.
Le mostre che si
vedono qua sono diverse, insomma. L'artista, a volte, si sente in dovere di spiegarti
per filo e per segno cosa stai guardando alla sua mostra. E, spesso, questo
limita le differenti interpretazioni che i fruitori dell'opera possono avere.
Vedi, ad esempio, l'esperienza di sabato all'esposizione nello spazio
espositivo di via Bertossi a Pordenone. All'inaugurazione della mostra ho
sentito le spiegazioni di vari lavori e nel preciso si spingevano pure i fogli
informativi; questo ha ridimensionato il mio punto di vista e la mostra non mi è
piaciuta infine. Il lavoro che mi ha colpito è quello di Laura Pozzar, che mi
ha lasciato comunque un senso di mistero seppure ho ricevuto da lei, dato che
la conosco, qualche delucidazione.
Spesso, l'effetto
finale è che per raggiungere una documentazione o un dispiegamento della
materializzazione di un'idea in modo da rendere percepibile un concetto, si
rischia di trascurare la parte estetica che è quella, secondo me, che dovrebbe
essere considerata per prima. Nella mostra di Venezia, della Bevilacqua, il
lavoro che mi è piaciuto di più è stato sicuramente quello che più mi ha
colpito esteticamente: quello di Amedeo o quello di Rachele.
Io
sono contro i pistolotti, insomma.
Nessun commento:
Posta un commento