Le persone sono libere, di pensare quello che vogliono, di fare quello che vogliono e così è l'intera vita. L'uomo ha un'energia enorme, è in grado di compiere qualsiasi cosa. E' errato pensare che non siamo liberi.
La gente considera un dogma la mancanza di libertà, la quale esiste, sì, ma non è propriamente in questo, piuttosto nella qualità: dei pensieri, delle scelte, dell'intimità, dei sogni, della vita pubblica... Ovvero, la struttura all'interno della quale viene formata la vita dentro di noi e fuori: la struttura all'interno della quale vengono formulati i pensieri. Quella no, non è incondizionata ma viene stabilita dal mondo circostante. La società fissa il modo in cui i pensieri vengono indirizzati, si è liberi di pensare a qualsiasi cosa, a vivere prendendo qualsiasi decisione, ma non liberi di sceglierne il modo. Vale a dire, non siamo noi a scegliere la priorità dei valori.
Si può fare quello che si vuole, ma la valutazione di cosa sia importante non è individuale ma assoluta all'intera comunità a cui si appartiene. Il modo di pensare è cambiato nella storia, stabilendo di volta in volta cosa è più importante e cosa meno: si crede di formulare giudizi personali quando si decide la propria vita e invece si segue tutti la stessa direzione. In passato, al primo posto stava l'uomo, cosa percepisce, i propri sentimenti, i sogni: l'anima. Ma tutto questo non è quasi più presente, ora l'uomo non è più al centro. Attraverso i mass media e il modo in cui è stabilità la società, il pensiero da qualche decennio si è spostato.
Oggi quello che è importante è la propria funzione, a cosa servi per la società, il lavoro che non è inteso come personale sviluppo ma come l'impiego che occupi. Il passaggio principale è avvenuto cento anni fa, quando lo sviluppo tecnologico ha rivoluzionato ogni cosa. Tuttavia, la tecnologia è stata applicata per migliorare l'uomo, era ancora il periodo umanista che ora raggiungeva l'apice: la tecnologia permetteva all'uomo di realizzare cose impossibili prima. Nel corso dello scorso secolo, infatti, l'uomo ha esaudito molti sogni, si è fatto più grande, poi, qualche decennio fa con il boom economico, la tecnologia ha cominciato a servirsi dell'uomo per farsi essa più grande. Per crescere, la società ha fatto in modo che l'uomo fosse asservito alla tecnologia, spersonalizzato; e l'individuo ha avuto in cambio la diffusione del benessere.
Chi, come me, è nato in questa società, infatti, ha l'abitudine, quando incontra un'altra persona, non di conoscersi domandandosi reciprocamente "chi sei" o "come stai" o magari "cosa sei", ma "cosa fai", "di cosa ti occupi", "qual è il tuo lavoro". Il fare è più importante dell'essere perché identifica il proprio posto e funzionalità all'interno della società. Non si ha valore se non si ha una risposta a queste domande: nella lista delle priorità, in cima sta il posto che all’interno della società personalmente si occupa. Non è neanche importante se si è felici o altri dettagli riguardanti l'intimità, ma lo stato occupazionale. Questo non è da confondere con la ricerca di uno scopo, è qualcos'altro.
E' stato modificato il modo in cui formuliamo i pensieri, e la modifica avviene con l’imposizione del comportamento da avere per sentirsi accettati dalla società. Se non si ricopre un ruolo, non si è accettati e l'insegnamento di questi canoni avviene attraverso gli stimoli più semplici, tramite la scelta di quali notizie diffondere, la tv... E non è più una cosa che ha a che fare con il sentirsi appagati o realizzare qualcosa nella vita, oggigiorno si tratta esclusivamente di far parte della produttività. Non si può non avere un ruolo improduttivo: ad esempio, l'anno scorso non ho lavorato granché e non ho quasi guadagnato, eppure è stato l'anno più felice della mia vita come anche l'anno in cui mi sono sentito meno compreso, inserito. Quando incontravo una persona, rispondevo alle domande "come stai?", con un "sono felicissimo", a "cosa fai?" con un "sto vivendo una bellissima storia d'amore" e il risultato era squadrarmi come un malato di mente. Ero io quello che sbagliava, non il mio interlocutore che mi giudicava un matto perché all'interno di questa società, in cima alle priorità ci sta la produttività e quindi il fare, il portare avanti un lavoro, l'accrescere una carriera. Tanto che se si fa un'analisi da questo punto di vista, l'anno scorso per me è stato un anno di perdita, un buco ingiustificabile che quasi sono spinto a provare imbarazzo nel spiegarlo: se si guarda la mia carriera, esso non ha senso.
Questa è attualmente la realtà: aspettarsi che si proceda con abnegazione con il proprio lavoro, che si spinga costantemente una propria carriera; non si può manifestare il contrario (forse solo di nascosto, come in 1984). E lo si capisce perché una marea di gente là fuori è impegnata a fare lavori che non servono a nulla, se non alimentare altro lavoro per rendere occupate altre persone. Impieghi che producono solo carte o aria, alimentando così il sistema; solo per esso sono indispensabili. E quando viene chiesto al lavoratore di spendersi di più, di fare sacrifici, egli acconsentirà sentendosi magari investito di qualcosa di più alto; mentre se riceve una retrocessione, come ad esempio, sempre con la scusante della crisi, una diminuzione delle ore di lavoro, la cassa integrazione, un abbassamento di livello o il licenziamento, il lavoratore cade in crisi, se ne vergogna, quasi un suicidio (e non è una metafora). Il motivo? Che l'uomo di questa società si identifica nel proprio ruolo, nella propria utilizzazione; senza, non esiste. Perché diviene, infatti, un oggetto, una mera attrezzatura, e appunto sacrifica altri aspetti della sua esistenza, i quali hanno una collocazione inferiore nella classifica dei valori. Se questo modo di pensare non cambierà, sarà terrificante quando la mia generazione arriverà al momento di affrontare la vecchiaia.
Io, da giovane, sognavo per il mio futuro una vita in cui al centro ci fosse il sesso e mi sembrava una cosa normale, ma ora mi guardo attorno e vedo una marea di gente, compreso me, che spende ogni energia e il proprio tempo per la propria occupazione, la quale, evidentemente, è più importante pure dello scopare. Ogni tanto mi domando se le persone lo fanno ancora o se si accorgono che è una di quelle cose della vita che sono state spostate nella categoria di "ornamento" o "cornice"...
Pertanto, quando una persona che si occupa di fare critica d'arte se ne esce parlandomi di sentimenti, di emozioni, di passioni dell'artista, non può che apparirmi anacronistica. Dove dovrebbe emergere o starci l'anima in tutto questo? Purtroppo, c'è la consuetudine di vedere l'artista come un essere a sé stante che vive mettendo al centro l'anima, magari pure mosso dall'ispirazione. Nulla di più offensivo: l'artista deve parlare alla pòlis, è immerso nella società, se nell'Ottocento gli artisti erano nella pelle di una creatura che quasi creava l'arte in trance per mano di una spiritualità superiore... era perché la società di allora era così. A volte, trovi oggi un critico d'arte o il fruitore di una mostra convinti di avere di fronte l'opera di un essere capace di parlare all'anima. Oppure, siccome si parla di arte, ci si riferisce a qualcosa di alto, celeste, sopra di tutto. Si sbagliano, l'uomo non è un animale: l'animale ha un'immagine di sé, dentro, e quindi per istinto si riconosce, ma l'uomo, invece, conosce sé stesso guardando il mondo che lo circonda. E il mondo che ci circonda non vede più all'uomo e alla sua anima, ma alla sua funzionalità operativa.
L'artista deve essere contemporaneo, non può non parlare della realtà. L'arte deve affrontare questo, quindi: il lavoro. Ma non come un tempo, nel Novecento, ma della personale funzionalità. Io ho trovato il mio ruolo e lo soddisfo operando nell'arte: non c'è nessuna specialità o elezione, mi sono impegnato per capire qual è il mio lavoro, e a mo' di vocazione lo adempio. Non si deve cercare nell'arte nessuna gioia o altro, è mero lavoro.
Infatti, io mi alzo e comincio; faccio una pausa, poi ricomincio. Ho dei turni in cui suddivido nelle mie giornate le varie attività. Non potrei fare altro, è il mio ruolo; non merito complimenti o attenzioni differenti. E' merda come qualsiasi altro lavoro, ma siccome il mio pensiero è strutturato da questa realtà, per me è la cosa a cui non rinuncerei mai.
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