Qui di seguito il sedicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto
IL GIORNO DELLA SALVEZZA
che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima Edizioni. Spero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.
MOLTI NEMICI MOLTO AMORE
L’essere umano si arrende alla società e la realizza inseguendo la promessa che così facendo potrà realizzare anche se stesso. Però, non sarà possibile perché la società stessa non faciliterà la libertà a ciò necessaria. Questo non è un errore nel sistema: la società si basa proprio su un incessante insistere su paradigmi identici. Ovvero, nel caso del singolo individuo, un insistere nel tentativo di soddisfare personali obiettivi e desideri, che sono i medesimi per chiunque altro. Nel suo fallimento personale, egli, inconsapevolmente, investirà le proprie forze, tempo e finanze nell’ingrandimento della società.
Mentre, se egli si arrende al Padre, andrà ad accogliere quanto la vita gli propone e che potrebbe essere in disaccordo con la prevedibilità della società e i programmi che essa ha per lui. Così facendo, però, egli incapperà in una serie di esperienze che gli faranno scoprire chi è lui veramente. E seppure questo dovesse avvenire senza che se ne renderà conto, la sua vita sarà un fornire occasioni di miglioramento per sé e per gli altri. Un beneficio perché per vivere così dovrà votarsi all’amore e, per riflesso, mostrare agli altri la via dell’amore. La quale, in conclusione, permetterà di vincere su tutto, anche sulla propria “croce”. Malgrado la società sia incline a disincentivare tali attitudini.
Vincere, infatti, non è una questione di coraggio, quello che si potrebbe supporre essere necessario per affrontare la propria “croce”. Semmai, ha a che fare con il consentire all’amore qualsiasi trasformazione, anche concreta, nella vita. E prova ne è che senza tale opportunità si può vivere un’intera vita ripetendo sempre la medesima esperienza. Se nella società si può venire giudicati quando si esce dalla prevedibilità, significa che in verità non si è liberi di fare come si desidera, come si ama. E allora ci si induce a limitarsi, incolpando se stessi per i traguardi mancati e giustificando la società che rimane là, apparentemente oggettiva e fornitrice delle condizioni per raggiungere con sicurezza tali traguardi.
Come fare se non attraverso speranze che non saranno mai appagate e doveri a cui sottostare (pena il giudizio), per convincere l’essere umano a una vita immiserita di amore? L’individuo teme che andrà in contro alla propria “fine” se non lavorasse così tanto, non appartenesse a gruppi ben precisi e non lasciasse il governo ad altri soltanto perché viene convinto che attraverso la fede, e quindi l’amore, non otterrà nulla. Ma come può esserne certo se non ha mai provato diversamente?
La gratitudine e l’amore nei confronti di un evento nella propria vita, faranno evolvere quell’evento in qualcos’altro. Che sarà, imprevedibilmente, quanto è destinato a essere. Esito che, come abbiamo già individuato, potrà essere fondamentale, indifferente, impossibile da valutare oppure rivelerà la sua importanza e utilità ad altri. Tale dinamica, stiamo tornando a sottolineare da un punto di vista più profondo, avviene non solo per gli eventi che personalmente si possono giudicare positivi, ma anche per i dettagli del quotidiano ai quali si incappa senza quasi accorgersene. Inoltre, tutto vale anche per quanto si può considerare come la propria “croce”, cioè qualcosa che è illogico mettersi ad amare.
Proprio come il non accettare che si possa far sbocciare un fiore al solo pensiero, così non avverrà il ben che minimo cambiamento senza accettarne la sua possibilità. E qui si sta insistendo sul far coincidere il sentimento di accettazione e accoglienza con un vero e proprio indistinto amore. Questo è l’atteggiamento di Gesù nei confronti della morte. Il risultato che ottenne fu, di conseguenza, il vincerla; che, ripetiamo, non è un “uccidere” così la morte, ma vivere con essa con amore. Che significa senza condizioni, proprio come caratterizziamo l’amore divino. Egli, infatti, giostrerà dal suo decesso in poi un rapporto di corrispondenza e coniugazione con la morte.
Dalla Passione e dall’allegoria della croce si ottiene, pertanto, la prova che sia possibile. Ovvero, che tale trasformazione della “croce” personale in un lasciapassare per una successiva esperienza è attuabile per l’essere umano. Anzi, scopriamo che la formula della “croce”, cioè l’amare la sofferenza personale al posto dell’odiarla, è concepita perfettamente per l’uomo, per come è fatto. Se così non fosse, Gesù non ci sarebbe riuscito, sarebbe morto invano, fallendo.
Per le persone è possibile con questa procedura giungere al Regno di Dio perché lo permetterebbe la loro stessa natura. Non è vero che bisogna attendere la propria morte perché il Regno di Dio non è il “regno della morte”, esso è possibile qui e ora. Se si accetta la propria “croce” e la si ama, allora qualsiasi “croce” capitasse sarà superabile. Finanche la morte, così che sia finalmente chiaro che una volta accettata la propria “croce” andranno a perdere di valore concetti che delimitano confini tra vita e non vita, morte e non morte, sofferenza e non sofferenza. Una condizione prossima nella quale nulla è impossibile ma anche che preclude la possibilità di aggrapparsi ad alcuna idea di limite. Da qui, una conseguenza importante sarà che verranno a mancare i sentimenti, prettamente terreni, che spingono a rincorrere desideri mondani. Poiché appunto, per definizione, sono caratterizzati da finitezza e transitorietà. Chi vince la propria “croce” non potrà più rimanere sedotto da brame egoistiche, anche se queste potrebbero essere state le spinte iniziali per la ricerca interiore.
È sufficiente l’approssimarsi a Dio per rendere qualsiasi coscienza alleggerita da inutili egoismi e, pertanto, da mire materiali. Malgrado ciò, non sarà impedito il raggiungimento di una vita ricca anche materialmente; perché questa non avverrebbe come esito a un proprio intento, ma come mero effetto collaterale dell’accesso alle infinite risorse della vera realtà.
Per questo non ha importanza che un fedele debba essere in un modo piuttosto che in un altro. Che debba pertanto aderire a un profilo e un’immagine precisi di fronte a Dio e alla comunità religiosa. Perché quella è solo la superficie (la “tenda”, cita per similitudine San Pietro), l’importante è l’esito del viaggio. Le condizioni che si vivono sono solo l’espediente che la vita ci fornisce per arrivare ad accettare la propria croce e così raggiungere la grazia. Non ha importanza se per ottenerla si debba nascere con devianze oppure vivere con abitudini che la comunità giudicherebbe peccaminose, perché tutti questi aspetti capitano al solo scopo di essere “croci” da amare. Quando poi si sarà in grado di farlo e si vivrà la trasformazione come testimoniato dalla croce di Gesù, allora tutte le devianze, limitazioni e peccati si scioglieranno automaticamente come neve al sole al semplice approssimarsi al Divino.
Ovviamente, questo non sta a celare una libertà incondizionata nella propria vita. La formula, infatti, rimane sempre quella del vivere con gli altri e rapportarsi alle altre persone come vicarie di Dio.
In un contesto religioso, si osserva che è allora un errore il considerare come una punizione la “croce” che ci viene proposta nella vita. Ma anche è errato il considerare una forma di perdono divino quando il fedele sente che accetta la propria “croce”. Vale a dire che se si considera il proprio vissuto come una condanna, ci si obbliga a vivere con un senso di colpa. Invece che intenzionati a ottenere la libertà, ci si ritroverebbe ad auspicarsi la sofferenza perché vista come veicolo divino. Non si sa verso cosa debba portare, come se il fine fosse solo soffrire e lo si vive come una pena a qualche infrazione commessa in un passato; non si conosce il motivo della condanna e questo comporta un tendere a vivere inclini alla sottomissione.
Anche un non credente può vivere così, perché ci si convince di non essere all’altezza per il motivo che non si ottiene quello che si vuole. Vivere da condannati, da puniti, è così accettato che pure quando il fedele arriva a non dare più peso alla propria sofferenza, oppure quando essa cessa (ad esempio, la risoluzione di una qualche insufficienza), egli si considera “perdonato”, “graziato”, ecc. Nel suo caso da Dio, tuttavia non sarà un atteggiamento bastante per progredire poi oltre, alla grazia. Perché se ci si crede perdonati, vuol dire ancora pensarsi come una persona che ha commesso una qualche infrazione. Oppure, se non si è credenti, si giudica che si è ottenuto quanto si desiderava perché finalmente ce lo meritiamo o è capitato un colpo di fortuna. Quindi non qualcuno che ha vinto tutto ciò, ha oltrepassato questi sentimenti, ma ne è ancora attaccato: avere fede di avere soltanto questa coscienza terrena, basata su premi e ricompense, pene a assoluzioni senza possibilità di mutamento.
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