Qui di seguito il quindicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto
IL GIORNO DELLA SALVEZZA
che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima Edizioni. Spero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.
LA PROPRIA CROCE
In questo nuovo viaggio nella pratica del Vangelo, si giunge a un punto superato il quale gli argomenti trattati nel precedente capitolo si potranno notare senza macchinosità. Spontaneamente, come se fosse possibile per ogni evento che si vive leggerne la matrice intima.
Consideriamo un esempio così da ritrovare tali intuizioni nella quotidianità. Io sono molto magro, o meglio: è così che appaio formalmente in questa realtà. Conosco anche il motivo di ciò: odio la mia magrezza. Di questo odio, se ne spiega l’origine nel mio essere convinto che la magrezza sia un ostacolo a un rapportarmi serenamente con gli altri. Quindi, proprio nel momento in cui dovrei esprimere invece me stesso in un modo compiuto, convincente. E finché, per questo motivo, io odierò la mia magrezza, essa rimarrà presente in me. Il suo mantenersi è così conseguente al mio viverla come un problema grave, diciamo pure irrisolvibile. Tuttavia, essa persiste anche per creare le condizioni adatte a causa delle quali io smetta di rimanerne attaccato. Ovvero, non odiarla più: arrivare a cessare di crederla permanente.
Se uno arrivasse ad amare quanto si è convinto di non poter amare nella propria vita o nel proprio modo di essere, ciò svanirebbe miracolosamente. Proprio come il fiore che sboccia al solo pensiero, del capitolo precedente.
Seppure ciò che non si ama veniva vissuto prima esclusivamente come un problema, quando viene visto come opportunità per risolvere lo stesso problema, la sua gravità cesserebbe. Nell’esempio personale: la soluzione apparirebbe non appena accettassi il mio essere così magro. Cioè che la magrezza non era il problema, ma la modalità per portarmi ad accettarla; quando si smette di vederne il problema non per indifferenza o rassegnazione, ma per un cambiamento di sentimento. Da odio in amore.
Il sospetto di illogicità nella dinamica presentata sta nell’ottenere una risoluzione attraverso un sentimento di amore rivolto a qualcosa che non si può apparentemente amare. In altre parole, giungere ad amare ciò che non si vuole amare, perché fonte del problema. Amare qualcosa di detestabile, creatore di disagio: il nemico presente nella propria vita. Il quale, invece, si interpreta che sia necessario contrastare affinché ogni cosa della propria esistenza che non fila liscio, iniziasse a fluire serenamente. Tuttavia, perché questa eliminazione sia possibile, il sentimento da rivolgergli è opposto: l’accoglierlo. Fino a che ci si fa la guerra, se ne permette paradossalmente la resistenza.
Amare ciò che nella propria vita è palesemente impossibile da amare per il disagio che comporta, ovvero per la sua carica di sofferenza, è un elemento decisivo per il nostro viaggio. È quanto viene rappresentato nel Vangelo come la “croce”. Ed è a questo simbolo che i cristiani, infatti, recano significati basilari. Essi ne parlano come il peso di cui caricarsi, proprio a imitazione di Cristo nel momento della Passione.
Ognuno ha, allora, una personale “croce”. E scopriamo che non deve essere semplicemente tollerata, ma amata. Ed è attraverso quest’azione che parte una vera trasformazione nel fedele. Amando ciò che chiaramente è per lui odiabile, procederà verso il Regno di Dio. Il quale, come traiamo dalle Lettere degli Apostoli proprio per confortare i nuovi fedeli, non viene limitato a una mera ricompensa successiva alla morte.
Infatti, si riscontra anche in questo passaggio fondamentale l’avvertimento di non cedere alla tentazione di credere che la propria croce sia solo una sorta di prova per garantirsi il posto in Paradiso: come abbiamo ormai bene imparato, non c’è in realtà alcuna gara. La sofferenza è l’opportunità nella vita per poter evolvere al Regno, e questo può essere non appena si è pronti. La sofferenza non è fornita semplicemente per morire.
Invece che sopportarla, la sofferenza deve essere amata; lo si intuisce da Gesù che si fa arrestare, giudicare, condannare e giustiziare. Tanto forte era l’intenzione di chi lo circondava che Egli venisse soppresso, quanto lo era la Sua possibilità di dimostrarSi innocente di fronte al tribunale. Tuttavia, accetta il volere altrui e permette “l’errore giudiziario”.
La croce, la Sua pena capitale, è indubbiamente la rappresentazione e la dimostrazione della sofferenza che Egli deve patire. La quale non è solo fisica, purtroppo, ma anche intima: le persone alle quali si è donato, ora lo gettano alla morte. La croce, pertanto, è l’emblema della trasformazione interiore a cui il praticante del Vangelo è invitato.
Come Gesù ha amato anche la croce, la sofferenza massima della Sua vita, pure il fedele deve amare la propria. Così, proprio nell’episodio che avrebbe dovuto dimostrare il fallimento della parola di Gesù, senza che i Suoi accusatori se ne rendevano conto, essa viene consacrata. Gesù rende tutto un dono, anche la propria morte: come si fa a donare la cosa peggiore che possa accadere? Al fine di poter augurare che non succeda a nessun altro, come se Egli avesse desiderato che la morte capitasse solo a Lui e l’umanità ne venisse risparmiata.
Nel leggere la Bibbia si trovano racconti mirabolanti e anche avventurosi, ci sono avvenimenti in cui prigionieri conquistano la libertà tramite prodigi. Eppure, Gesù non godrà di un simile trattamento: tra tutti gli espedienti che avrebbero potuto aver luogo per poterLo liberare dall’arresto, addirittura soprannaturali, non ne accade nessuno. Se si fosse salvato, oppure se infine Lo avessero rilasciato, la comprensione sulla trasformazione della sofferenza non sarebbe avvenuta. La conoscenza trasmessa attraverso un evento, ancor meglio che con tante parole, arenerebbe.
Le persone possono individuare parecchie croci nella propria esistenza. Vincerle è possibile, e questo avviene con l’amore. Gesù vince la morte, che è, in quel momento, la Sua croce; e, infatti, non c’è da stupirsi che tornerà dalla morte. Se è possibile addirittura vincere la morte, allora sicuramente ognuno può amare la croce che ha.
La difficoltà in questa azione non è nell’accettare qualcosa di inaccettabile, ovvero l’amare qualcosa che è improponibile da amare, perché se la propria croce è presente vuol dire che è già accettata. Non fa differenza amarla o no: essa già c’è. La difficoltà, semmai, è nell’accettare di vivere quell’amore. Che è comunque una relazione e quindi che prevede una corrispondenza. Ad esempio, cosa ci potrei fare con la mia magrezza? Se io l’amassi, vi stringessi quindi un legame, cosa ci dovrei fare assieme?
Allora, prima di impegnarsi nei confronti della propria croce, è determinante fare luce sull’amore. C’è l’intero Vangelo da attraversare, prima di affrontare la croce, infatti.
Per amore si intende quella spinta verso qualcosa, che fa muovere verso la vita. È la medesima descrizione che si può trarre quando si trattava l’energia che muove ogni cosa. Che spinge una pianta a germogliare, il bruco a divenire farfalla e ogni componente dell’universo a realizzare se stesso. Nel precedente libro, difatti, si lasciava intuire che la vita fosse sinonimo di amore.
L’amore è la spinta verso tutto ciò che è vitale, che è bello. Che attira e permette una relazione, uno scambio di doni. Tuttavia, se si osserva con attenzione la quotidianità, spicca che esperienze simili non sono poi così ovvie. Come abbiamo in vari modi affrontato, specie nel precedente libro, lo scambio, la gratitudine, l’amore, il fedele li dovrebbe rivolgere verso ogni cosa gli capiti nella vita. Eppure, non è così scontato che se ne abbia l’occasione o anche solo il tempo. Il motivo è certamente dipeso da una routine scandita da gesti e impegni che sono sempre abbastanza simili. Ogni giorno si è indotti a compiere azioni che hanno più a che fare con il soddisfare un dovere. E questo non è strettamente collegato con il piacere o con il muoversi verso la bellezza, verso ciò che è vitale.
L’abitante della nostra società subisce un forte limite e disabitudine a rivolgere tali sentimenti a quanto vive. La causa è la struttura di doveri e divieti che egli segue, ovvero la società stessa. Ma non è nulla di alieno, se si guarda con attenzione: se l’individuo fosse infatti libero di inseguire le sue pulsioni e ricercare quindi solo quanto gli suscita amore, vivrebbe con regole tutte sue. Cioè, non sarebbe facile dargli delle abitudini da seguire e così permettere l’ordine per la realizzazione della società stessa. Questa dinamica non è un’imposizione tirannica di un qualche misterioso gruppo di potere, è il modo spontaneo alla quale la società intera si è omologata per permettere la sussistenza e sviluppo generali.
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