28/03/14


"Pare un assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni."
Leopardi, Zibaldone


Il motivo per cui ho atteso almeno dieci anni prima di mostrare i miei lavori di arte visiva.

Avevo dei problemi con il linguaggio. Creare un'immagine è il linguaggio; un'immagine può palesarsi non semplicemente con una stampa bidimensionale, ma con una struttura tridimensionale, come anche nell'accostamento (composizione, armonia, equilibrio) di più oggetti: ad esempio, quando lavoro nell'orto con mio padre, lasciare le erbacce significa rovinare l'immagine dell'orto (che vogliamo). Così, tra le varianti disponibili, il linguaggio che più a lungo ho preferito è stata la poesia in versi: con la parola potevo suscitare delle immagini nel modo più vago che conoscessi. Perché aver bisogno della vaghezza? per ambientarsi nell'indefinito dato che consideravo la realtà assolutamente inaffidabile ovvero, innanzitutto, il prodotto delle percezioni sensoriali tanto personali quanto irriproducibili. Spiego meglio ricordando che il mio immaginario proveniva esclusivamente da esperienze avute in sogni o sogni realistici, visioni dove tutto può accadere e quindi nulla è saldamente come appare.
Il passaggio a mostrare le immagini in una chiave più visibile, tangibile succede nel rendersi conto che comunque si deve scrivere e poi leggere l'immagine\l'opera attraverso proprio quelle percezioni personali. Pertanto, in ogni opera ci posso trovare sempre me stesso, perché la utilizzo: sia come autore che come pubblico... Quindi, anche se l'immagine rappresentata è astratta, diventa reale, perché io (e il modo in cui mi convinco di percepire il mondo) sono reale. Purtroppo, questa è un'affermazione molto traballante, perché è proprio qui che sta l'impedimento all'emergere come artista visivo: ero convinto che non fossi reale.
Effettivamente, quando lavoro mi baso sulla fotografia ma non significa che mi fido di essa (della sua capacità o funzione di testimone): l'ho già affermato più volte, la fotografia è solo un segno. Se vogliamo, la si può anche identificare come la parte da cui scaturisce la teoria del mio lavoro, mentre la parte pratica del mio lavoro è possibile solo con la condivisione: utilizzo di foto altrui, performance, azioni, collaborazioni, confronti, sfide, ecc; anche se non emerge mai, raramente faccio qualcosa da solo e sono principalmente delle performance che faccio senza pubblico, con una finalità strettamente personale (come dei riti). Più propriamente, bisognerebbe dire che tutta questa attenzione nei confronti della condivisione si concentra in questo periodo perché è attraverso riflessioni su questa materia che mi è stato possibile giungere alla soluzione, al dispiegamento del mio nuovo progetto " ". Il quale appunto si sviluppa tutto grazie alla condivisione, cioè condividendo si accresce. Tutti i pensieri a tal proposito mi erano sorti già da un pezzo (tra l'altro pensando al sesso): che in un modo o nell'altro, per produrre qualcosa, per combinare qualcosa bisogna essere in due; bisogna dividere\dividersi. (n.b.: sesso deriva infatti dal verbo secare: dividere. Tagliando in due ci si moltiplica, non si diminuisce.)
Allora, essendo in due, quello che si crea è altamente imprevedibile, quindi la formula ideale di quanto vado in cerca con i miei lavori. Non so cosa mi porteranno queste esperienze, per ora è una sorta di curiosità del mistero, una curiosità spirituale sapendo che la verità, anche se rientra nell'illusione, sta comunque sull'altro lato della superficie, sull'altro corpo. O forse, sarebbe meglio dire che creando in due si porta la verità dalla nostra parte, su di noi, nella nostra procreazione, zona franca fra il visibile e il non visibile.

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