Uno degli argomenti principali
che si intavolano al momento di discutere di fotografia è il dove mettere il
confine fra quella digitale e quella analogica. Per me è un ragionamento che
occupa molto spazio di solito, perché lavoro indifferentemente in entrambi i
modi a seconda dell’estetica che voglio raggiungere; il più delle volte
utilizzo le stampe e le pellicole per elaborarle poi in digitale. Per me non ha
senso scegliere una modalità e rinunciare ad un'altra, per il semplice fatto
che la fotografia non è affidabile totalmente nel trasmettere la realtà.
Proprio come non lo è la pittura, e quindi sarebbe come un pittore che si dovesse
attenere esclusivamente ad una tecnica, ad un tipo di pennello o di colore: se
non credo che la fotografia sia affidabile, allora posso adoperare tutti gli
stili disparati che mi vengono in mente.
Vale a dire che a differenza
della fotografia, con i miei lavori, la mia immagine, seppure fotografica, non
testimonia il reale, ma mette in scena qualcosa che potrebbe esserlo. Anche se
questo qualcosa è assurdo si precisa sempre che "potrebbe esserlo",
reale, perché la fotografia ha comunque un ineluttabile riconoscimento (o
dogma, forse) di affidabilità. Che allora mi torna utile proprio per aumentare
l'assurdità. Cioè, i miei lavori mettono in parallelo il reale con qualcosa di
non comprensibile: dare una forma e quindi una possibilità di incontro a un non
visibile. Più faccio fatica a comprendere l'immagine che sto realizzando e più
so che sto ottenendo il risultato; meno è ovvia la lettura e maggiormente posso
considerare buona quell'immagine. Le immagini di facile lettura le trovo senza
senso e non c'è bisogno di farne, non aggiungono niente a quelle che già ci
sono: impegnarsi a mettere in scena qualcosa di oscuro ti permette di tenerti
lontano dal mettere in scena roba senza senso, idiota. (questo anche per
compensare che mi son dato dell'imbecille nel testo precedente)
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